“Ma voi non fatevi chiamare «rabbì», perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli” Mt 23,8.

Nelle cosiddette culture occidentali il tema della fratellanza – uomini e donne, fratelli e sorelle – sembra non essere nuovo, ma oggi esso non è scontato. Non si può infatti non osservare come ai nostri giorni la fraternità e la fratellanza universali, così spesso retoricamente affermate, nell’effettività di tante vite risultino spesso marginali e irrilevanti, se non assenti.

Dei tre elementi emblematicamente proclamati dalla rivoluzione francese (libertà, uguaglianza, fraternità), elementi non esenti anche da echi biblici e cristiani pur secolarizzati, la fratellanza non ha avuto la stessa fortuna della libertà e (in parte) dell’uguaglianza. Ne è riprova il fatto che oggi ci sembra importante essere liberi, ma facciamo facilmente a meno della fraternità. Di fatto, in un’epoca tendenzialmente contrassegnata da un pluralismo senza confini, le differenziazioni e le singolarità rischiano di diventare talmente tante che presso i loro latori può persino cadere nell’oblio la coscienza dell’appartenenza comune a un’unica umanità.

A questo si aggiunge che non siamo ancora in grado di ben discernere le conseguenze che su tutto questo potrà avere la situazione inattesa e inedita creatasi dopo la pandemia che ha afflitto gran parte della Terra, la quale oltre a rivelare la nostra fragilità ha giocoforza creato le condizioni per un isolamento sanitario e sociale che ha inciso sugli stili e le scelte di vita individuali e sociali.

A fronte di tutto ciò riprendere e riaccreditare la condizione di fratellanza universale rappresenta una risorsa vitale per la qualità della vita degli uomini nel mondo. Essa si può meglio comprendere cogliendo come viva in due dimensioni che meritano di essere approfondite.

Come principio laico che figura nel primo articolo della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani – “Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza” – essa è sicuramente legata, anche se non esattamente coincidente, alla nozione di fraternità, ed entrambe hanno a che fare con il legame naturale tra chi nasce nella stessa famiglia. Se la parola fratellanza riferisce chiaramente a una sorta di parità di diritti tra tutti gli esseri umani e al vincolo e dovere che ne conseguono, il termine fraternità, con gli avverbi e gli aggettivi derivati, indica atteggiamenti e rapporti all’insegna di un’origine comune.

L’idea di fratellanza come emerge dalla vita e dall’insegnamento di Cristo – e da come è affiorata in alcune vicende rilevanti della tradizione spirituale e sociale cristiana che s’improntano alle Scritture ebraico-cristiane – fa chiaramente riferimento all’idea di figliolanza di tutti gli esseri umani, raccolti dalla paternità di Dio, da cui deriva la relazione fraterna tra di loro. Anche se spesso si parla di fratellanza/fraternità per indicare la parità, bisogna ricordare – come la Bibbia racconta in molti luoghi e modi sia nel Primo che nel Nuovo Testamento – che essere tutti fratelli implica la differenza oltre che l’uguaglianza: salvo casi particolari essere fratelli/sorelle significa, ad esempio, avere differenza di genere, di età, di posizione nella famiglia, di interessi, di compiti. Fratellanza dunque non significa semplicemente uguaglianza, ma assunzione della differenza, e chiede la capacità di far crescere un’umanità che si caratterizza come diversità riconciliata. Ed è proprio la differenza tra i fratelli/sorelle che – pur con tutte le difficoltà, i conflitti e i fallimenti che la cosa può portare con sé – consente di imparare la relazione buona che è sempre relazione con l’alterità, con qualcuno che pur essendo come me, tuttavia è altro e diverso da me.

La fraternità che ci unisce e unisce il mondo riguarda pertanto tutti gli esseri umani, non solo alcuni o alcune. Li riguarda (e ci riguarda) sia per la comune appartenenza alla famiglia umana, sia per la figliolanza di tutti nella paternità di Dio. Dunque essa, nelle sue implicanze individuali e sociali, non ammette «scartati» e non si radica solo su legami di sangue o familiari o su colleganze di gruppo. Con essa è piuttosto in gioco l’appartenenza e il contributo di ciascuno alla comune umanità. Inizia con atteggiamenti e azioni che s’improntano al rispetto e al riconoscimento di ogni altro e della dignità della sua vita e, oltre ogni divisione, giudizio e indifferenza, evolve e matura nella giustizia, vicinanza, responsabilità e solidarietà praticate da chi – singolo o società con le proprie diverse strutture (personali e comunitarie; psicologiche, giuridiche, economiche, culturali ecc.) – sa rispondere e risponde effettivamente all’appello che la vita dell’altro, ogni altra vita umana a cominciare da quelle più deboli, sempre gli lancia convocandone la libertà: “Fa’ che io viva!”.

Si tratta di pensarci insieme e insieme alla Terra e ne va della qualità umana della vita umana nostra e di ogni altro, ad un tempo appellante e appellato.

La Chiesa è come una grande orchestra in cui c’è varietà. Non siamo tutti uguali e non dobbiamo essere tutti uguali. Tutti siamo diversi, differenti, ognuno con le proprie qualità. E questo è il bello della Chiesa: ognuno porta il suo, quello che Dio gli ha dato, per arricchire gli altri. E tra i componenti c’è questa diversità, ma è una diversità che non entra in conflitto, non si contrappone; è una varietà che si lascia fondere in armonia dallo Spirito Santo; è Lui il vero “Maestro”, Lui stesso è armonia.