“Gesù allora, sapendo tutto quello che doveva accadergli, si fece innanzi e disse loro: “Chi cercate?”. Gli risposero: “Gesù, il Nazareno”. Disse loro Gesù: “Sono io!”. Gv 18,4-5

Nella Passione secondo Giovanni, che leggiamo quest’oggi durante la liturgia, si staglia la figura di Gesù che esercita in pienezza la sua regalità. Lui, libero e consapevole, sale sul suo trono per esercitare il suo potere di salvezza e dona la vita a tutti. Certo, l’esercizio di questo potere non è convenzionale, non si manifesta con la violenza con cui l’essere umano gestisce il potere. La sua potenza viene da Dio e si mostra nella debolezza, nella fragilità che rimane aperta al dono di sé senza arroccarsi o fuggire.

Questo suo andare incontro a ciò che avviene senza scappare, ma scegliendolo ad ogni passo, si mostra fin dall’inizio del testo; Gesù per tre volte professa la sua identità “Io sono” (che richiama anche la sua divinità) ai soldati che sono venuti a prenderlo. E questa triplice affermazione si contrappone fortemente alla triplice negazione di Pietro, che si nasconde e si dilegua dallo sguardo altrui.

Pilato, poco dopo, involontariamente riconoscerà nell’esclamazione “Ecco l’uomo” (che per lui significava “Eccolo, vedete come è ridotto quello che volete uccidere”) la realizzazione piena della vocazione umana, dell’epifania dell’uomo autentico che vive una vita da consegnato. Gesù rimane saldo in questa sua scelta di consegnarsi fino all’ultimo respiro e proprio nell’affidarci quell’ultimo alito di vita ci dona lo Spirito che ci spinge a fare altrettanto con la nostra vita, alimentando la nostra “vocazione a perdere”, vita, energie, tempo per i nostri fratelli e le nostre sorelle. 

Frate Stefano