“Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna”. Mt, 20,1
Non è giusto
Perché ve ne state qui tutto il giorno senza fare niente?
Va dritto al punto, il padrone della vigna, non fa certo giri di parole.
Manca poco al tramonto, un’ora ancora di lavoro, e, certamente, non ha bisogno di manodopera per la vendemmia.
E non ne aveva bisogno nemmeno a mezzogiorno. O alle tre. Figuriamoci. Ma dai.
Neanche il più incompetente fra i viticoltori sarebbe così impreparato e incompetente.
Ma lui esce ugualmente. Anche alle cinque. E vede questi perditempo bighellonare.
Li avvicina. Li confronta. Chiede loro ragione della loro inerzia.
Accampano scuse, i fannulloni. Nessuno ci ha chiamati.
Non è vero. Non erano lì alle sei del mattino. E nemmeno alle nove. O alle dodici. O alle quindici. Perché il padrone era passato e loro non c’erano. Li avrebbe chiamati
Nessuno ci ha chiamati. Lui sì, se solo ci fossero stati.
Li avrebbe portati a lavorare con sé. Si sarebbero guadagnati il pane con dignità, senza vivere di espedienti o di elemosina o di sussidi.
Accampano scuse, la colpa è sempre degli altri. Dei politici, dei padroni, dei miei famigliari, del deep state, della congiunzione astrale, di Dio… Si sentono vittime del sistema o di non si sa cosa. Primi di una lunga serie di piccole fiammiferaie giunte fino a noi.
Si sono alzati dal letto con calma.
Hanno finto di cercare lavoro. Meriterebbero di restarsene a spasso.
Ma Dio
Ma lui, il padrone, Dio, è di nuovo lì. Per offrire loro una via d’uscita, un riscatto.
Ecco, Dio è così. Il Dio di Gesù è così.
Mica ti accarezza il pelo per il verso giusto. Mica fa il melenso. E non fa complimenti.
Se ti vede spento, inattivo, attendista, propenso al vittimismo, ti scuote. Chiede ragione delle tue scelte. Dandoti una via d’uscita.
Il suo è un amore creativo.
Dio non la pensa come noi.
E per quanto ci sforziamo non riusciremo neanche lontanamente ad afferrare la sua visione delle cose.
Così Isaia scuote i deportati in Babilonia indicando loro la corretta logica di Dio: se saranno riscattati, se potranno tornare in Israele, se infine, ritorneranno liberi, non sarà per loro merito ma per iniziativa gratuita del Signore.
Paolo, commosso, riceve da Filippi, la più amata fra le sue comunità, la prima “europea”, Epafrodito che gli porta consolazione e denaro. È una visita inattesa che aiuta Paolo a sostenere le angustie e la prigionia di Efeso e lo convince a resistere anche se tutto, apparentemente, sembra precipitare nel caos come, forse, sta accadendo a molti fra noi in questo mondo che pare dissolversi, in questo momento di sbandamento sociale ed etico.
Non è giusto
Eppure leggendo il proseguo della parabola, avvertiamo una forte sensazione di disagio.
Perché noi, come lo erano allora in Israele, siamo convinti che la salvezza si meriti, e che la fede sia una sorta di contratto fra dare e avere.
Nonostante Gesù, nonostante il vangelo, nonostante duemila anni di cristianesimo.
Gli operai della prima ora, e anche noi lo abbiamo pensato: questo padrone esagera pagando gli operai dell’ultima ora come quelli della prima. Non è giusto.
Capiamoci bene, allora.
Il Dio di Gesù ama anche gli ultimi e non soltanto i primi, come dicevano i farisei.
Dio vuole che tutti siano primi!
È un’altra la giustizia di cui parla Gesù, va più a fondo, supera la proporzionalità, porta gli ultimi al livello dei primi. Seguendo questa logica anche noi discepoli possiamo capire qualcosa di Dio e di noi stessi. Sì, certo, la giustizia fa parte dell’edificio, ma non ne è la pietra angolare.
Davanti a questa sovrabbondanza, a questa savia follia, si respira aria di conversione.
Si convertono i peccatori, capendo che non sono più ultimi.
Si convertono i giusti, che non chiudono più Dio dentro la gabbia della giustizia.
Non è per i nostri meriti che siamo amati da Dio. Ma per i nostri bisogni.
E questo amore ci spalanca allo stupore.
I servi
Il padrone, inizialmente protagonista della parabola, viene, durante il colloquio, chiamato correttamente Signore, identificandolo così con Dio. Dopo avere dato ascolto ai servi e spiegato le sue ragioni, insinua un dubbio, come dicevamo.
Non fa una piazzata, non batte i pugni sul tavolo, non fa pesare la sua autorità (può fare quel che vuole del suo denaro!) ma mette una piccola pulce nell’orecchio dei servi.
E, rileggendo il testo, ha di che farlo.
Vedendo gli operai dell’ultima ora ricevere un denaro, quelli della prima ora pensano: «a noi darà di più». Ma, vedendosi pagare solo un denaro mormorano, non hanno nemmeno il coraggio di parlare apertamente!, e dicono: «a loro devi dare di meno».
Non dicono quello che pensano, sarebbe stato più onesto.
Sono pavidi, chiedono per gli operai delle cinque del pomeriggio meno. Meno di un denaro.
Meno del necessario per sfamare una famiglia.
Chiedono per gli altri la fame. Forti con i deboli. Deboli con il forte. Immondi.
Certo, si nascondono dietro alti principi di giustizia, e hanno ragione.
In realtà celano un cuore piccolo che, invece, di reclamare di più, come vorrebbero, si vendica sugli altri perché abbiano di meno. Terribile.
Anche noi fatichiamo ad uscire dalla logica del merito e del giudizio e, quel che è peggio, rischiamo di proiettarla addosso a Dio. Uscita dalla porta, la visione meritoria della fede in qualche modo rientra dalla finestra, opprimendoci sotto pesanti sensi di colpa e di inadeguatezza.
Da questa visione dobbiamo convertirci per credere nel Dio che Gesù è venuto ad annunciare.
Non il merito, ma l’amore gratuito di Dio ci salva.
Perciò, accogliendo questo amore, compiamo opere meritorie.
Questo è il Dio di Gesù.
Questo è il Dio cui mi sono arreso.
(Se va avanti così, divento cristiano)
Paolo Curtaz