È sempre difficile (e spesso rischioso) applicare le parole del Vangelo a situazioni critiche attuali o avvenimenti specifici.
Come reagiremmo noi davanti a simili attualizzazioni: “Credete che quegli Ucraini uccisi sotto i bombardamenti o di casa in casa abbiano avuto tale sorte perché più colpevoli di altri?”. Oppure: “Credete che i contagiati dal Covid 19 siano stati colpiti perché più colpevoli di altri?”. Noi diremmo: “No certamente! Sono eventi o fatti di cronaca indipendenti da una colpa specifica”. Eppure sentiamo dire spesso: “Dio ha punito il tale. Prima o dopo la giustizia di Dio arriva”. Più spesso ancora sentiamo dire: “Padre, con questa malattia sto scontando i miei peccati. Dio mi ha mandato questa sofferenza. Questa croce mi è stata mandata da Dio. Perché Dio permette che soffrano i bambini innocenti?”.
Ma che Dio è questo? O meglio: che concetto abbiamo e che mentalità abbiamo diffuso noi tra i cristiani a riguardo dell’identikit di Dio? Eppure Gesù è stato molto deciso nella sua risposta: “No, io vi dico”.
Dice p. Ermes Ronchi: “Non è Dio che fa cadere torri o aerei, non è la mano di Dio che architetta sventure. Ricordiamo l’episodio del cieco nato: chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché nascesse così? Gesù allontana subito, immediatamente, questa visione: né lui, né i suoi genitori. Non è il peccato il perno della storia, l’asse attorno al quale ruota il mondo. Dio non spreca la sua eternità e potenza in castighi, ma lotta con noi contro ogni male”.

Allora, se non è Dio che fa cadere gli aerei, dobbiamo cercare un significato diverso nelle parole di Gesù e di conseguenza nella interpretazione degli avvenimenti: “Ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”. Il centro del messaggio è proprio la conversione, il cambiamento di mentalità, anche di quella ereditata da una visione giustizionalista di Dio.

La concretezza e quasi la stizza del padrone della vigna nel constatare che già da tre anni la pianta di fichi non dà frutto viene vinta dal vignaiolo che ancora una volta apre alla speranza: “Lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire …”. Nemmeno la conversione è esigita immediatamente, quasi con una decisione tanto improvvisa quanto destinata all’inefficacia. La conversione è un lavorio interiore lento. Io ci metto il desiderio e la disponibilità al rinnovamento, la nostalgia del portare frutto. E intanto Dio, paziente coltivatore della mia vita, mi zappa attorno e mi mette il ‘santo’ concime. Egli mi conosce, scommette su di me, sa che il mio terreno è fondamentalmente buono. E la Pasqua mi aspetta con i suoi frutti saporiti.