«Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!”» (Lc 23,39). Concludiamo l’anno liturgico con la solennità di Cristo Re. E ognuno di noi in questo giorno potrebbe chiedersi: quale regalità ha espresso Gesù con la sua vita e la sua morte? Ai piedi della croce, i vari personaggi notano l’incongruenza fra il ‘titulus’ che Pilato ha voluto esporre, sintetizzato nelle raffigurazioni con l’acronimo I.N.R.I. (“Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum”), e l’orribile condizione a cui viene sottoposto quell’uomo inchiodato nel legno. Come può essere “Re dei Giudei” chi viene condannato a morte dal suo stesso popolo? Quale sovranità dimostra chi è ridotto allo stato di vittima sacrificale? La parola chiave che ritorna in continuazione nel testo evangelico in questa liturgia è il verbo ‘salvare’: “Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto”. Ecco la grande contraddizione: un re che non è capace di mettersi in salvo. Il suo nome in ebraico – ‘Yehoshuà’ – significa “JHWH è salvezza”; la croce sembra la negazione del nome di Gesù. E se fosse esattamente questo il cuore della fede cristiana? Quale umanità merita di essere salvata, custodita, promossa, sviluppata? L’atteggiamento violento di chi non ha scrupoli quando si tratta di ferire qualcuno? L’indifferenza di chi ignora i sentimenti degli altri? La mentalità egoista di chi accumula soltanto per sé? Credo siano illuminanti le parole di Etty Hillesum, che troviamo in un passaggio del suo celebre diario. “L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini”. Nella corporeità del crocifisso, vittima senza rancore, che prega per la salvezza dei suoi carnefici, che è pronto anche nell’agonia più crudele a spalancare le porte del paradiso, che si consegna alla morte più infame senza fuggire e senza cercare privilegi, per essere solidale con tutti i disperati della storia, noi contempliamo la luce di una umanità fedele fino all’ultimo istante al comandamento dell’amore. Questa è la vita di Dio trasmessa nel battesimo, che dovremmo ‘disseppellire’ dai nostri cuori, i quali accumulano ogni giorno messaggi di odio. Nei giorni della sua esistenza terrena e nell’ora della croce Gesù ha messo in salvo una grammatica di parole e gesti che fanno crescere il ‘Regno di Dio’, cioè il faticoso affermarsi sulla terra della giustizia e della pace; la regalità di Cristo accade quando la logica del dono prevale sull’affermazione di sé e sulla ricerca ostinata di interessi personali. Anche noi come i Magi evitiamo la strada che ci riporta da Erode, e volentieri ci prostriamo ai piedi di un re che si lascia umiliare per essere accanto a chiunque abbia perso la speranza.
Don Andrea Guglielmi parroco