“Non abbiate paura”
Per tre volte risuona in questo testo l’invito di Gesù a non temere.
Questo brano del vangelo di Matteo si colloca immediatamente dopo due versetti importanti per comprenderne il senso: “Un discepolo non è più grande del maestro, né un servo è più grande del suo signore; è sufficiente per il discepolo diventare come il suo maestro e per il servo come il suo signore. Se hanno chiamato Beelzebùl il padrone di casa, quanto più quelli della sua famiglia!”
Gesù sta istruendo i suoi discepoli, esplicitando che un vero cammino di sequela li porterà a condividere il suo stesso destino, cioè li condurrà presso la croce.
Questa progressiva adesione al Maestro comporta delle conseguenze pratiche molto chiare.
Il discepolo è chiamato ad annunciare il vangelo con tutta franchezza, senza lasciarsi intimorire dalle minacce degli oppositori. Dove tutto sembra smentire l’opera di annuncio del bene, dell’amore evangelico, lì il discepolo è chiamato a perseverare, a crescere in una fiducia incrollabile nella custodia del suo Signore.
Una fiducia piccola e semplice, come quella dei passeri, che si abbandonano alla provvidenza senza alcun timore.
Nella prima lettura, tratta dal libro del profeta Geremia, troviamo in questo personaggio la figura del vero discepolo, così come l’evangelista Matteo lo descrive:
“Sentivo la calunnia di molti: «Terrore all’intorno! Denunciatelo! Sì, lo denunceremo».
Tutti i miei amici aspettavano la mia caduta: «Forse si lascerà trarre in inganno, così noi prevarremo su di lui, ci prenderemo la nostra vendetta».
Ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso, per questo i miei persecutori vacilleranno e non potranno prevalere; arrossiranno perché non avranno successo, sarà una vergogna eterna e incancellabile”.
Possiamo chiederci in questa domenica quali sono le paure che abitano il nostro cuore e ci impediscono di annunciare con franchezza l’evangelo… all’origine di ogni paura ritroviamo la paura radicale che accompagna ogni esistenza umana: la paura della morte.
Ebbene, dice Gesù, tutti i nostri “nemici” hanno soltanto il potere di uccidere il corpo, ma non l’anima. Occorre vigilare per non cadere nell’illusione che preservando il nostro corpo possiamo anche “salvare” l’anima, cioè la nostra vita interiore più profonda e preziosa.
La tentazione è proprio questa: restare alla superficie della vita, senza mai giocarla per davvero, fino in fondo, salvando – sì – un’immagine ideale che incontri le aspettative degli altri, ma che alla lunga, spegne la vita vera dentro di noi. Essere alla sequela di Gesù invece ci apre alla pienezza di vita, non risparmiandoci l’amarezza del rifiuto, dell’incomprensione e del fallimento, ma aprendoci anche orizzonti infiniti di bellezza, nascosta nelle pieghe della relazione con Dio e con i fratelli e le sorelle.
È questo cammino che progressivamente ci aiuta a “riconoscere” il Padre. La finale di questo brano non ci parla di una minaccia di condanna da parte del Signore, ma piuttosto di una dinamica che richiede la nostra scelta: chi si allena a riconoscere e servire il Signore nelle vicende quotidiane, lo incontrerà anche nel tempo del compimento finale della storia. Non sarà tanto Gesù a “rinnegare” noi davanti al Padre, ma semplicemente egli presenterà al Padre la nostra scelta di rifiuto di Lui.
Riconoscere davanti al Signore le nostre paure e fragilità ci permette di entrare nell’atteggiamento di abbandono come i passeri… Facciamo nostre le parole del Salmo 68 (69) che la liturgia oggi ci propone:
“Vedano i poveri e si rallegrino; voi che cercate Dio, fatevi coraggio,
perché il Signore ascolta i miseri non disprezza i suoi che sono prigionieri”.