«Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano”» (Lc 18,11).

La costruzione di questa frase in lingua greca, nel testo originale, potrebbe essere letteralmente tradotta così: “pregava sé stesso”. Se il termine ebraico ‘fariseo’ significa ‘separato’, dobbiamo constatare la piena corrispondenza del vocabolo alla realtà: quest’uomo è veramente un ‘separato’, distante dai suoi fratelli e lontano da Dio; il suo discorso è un monologo, cioè l’esatto contrario di un dialogo. Il fariseo è davanti allo specchio e come Narciso vede soltanto la propria immagine; la preghiera si riduce ad essere autoesaltazione, elenco di prestazioni etiche e spirituali, celebrazione e culto dell’ego. Il pubblicano, invece, sta facendo la guerra al proprio io: “si batteva il petto”. C’è una componente di violenza in questo gesto ripetuto; è l’inizio di una rigenerazione; e noi contempliamo il travaglio, la sofferenza di un parto: sta per uscire dal grembo di Dio l’uomo nuovo, la creatura che rinasce. In effetti questo personaggio invoca la maternità di Dio: “abbi pietà di me peccatore”.

In un lato del tempio osserviamo il fariseo che costruisce la propria ‘eucaristia’ completamente distorta: “O Dio, ti ringrazio…”. Troviamo qui il verbo greco “eukaristò”: è l’eucaristia più triste, che coincide con la superbia dell’orante; gratitudine apparente, perché al Signore non viene riconosciuto alcun merito; la preghiera del fariseo è l’autocompiacimento di chi si ritiene superiore agli altri, postura diametralmente opposta a quella assunta da Gesù nell’ultima cena, quando si inginocchia a lavare i piedi dei discepoli. Dall’altra parte del tempio di Gerusalemme, c’è un uomo che lascia fare a Dio, consapevole di avere sbagliato. Nell’ultimo versetto di questo racconto brevissimo, l’evangelista suggerisce un dettaglio che non va trascurato: “Questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato”. Il pubblicano torna a ‘casa’, spazio simbolico che allude ai legami, ai rapporti, a un vortice di alleanze in cui si scatenano i profumi e i sapori della vita. La fine di Narciso, invece, è una traiettoria ben diversa: la persona, intrappolata dal proprio ego, incapace di relazioni, si sgancia dalla vita e va incontro alla morte.

Ma Dio è “abbà”, tenerezza paterna; rimangono costantemente aperte e accoglienti la sua dimora e le sue viscere. È questo il grande annuncio, che prima o poi arriverà agli orecchi e al cuore del fariseo. E anche il suo volto si riempirà di una gioia inedita.

Don Andrea Guglielmi, parroco