Questa domenica è la penultima dell’anno liturgico, e il brano di Marco, seguendo la tradizione giudaica, ci presenta le realtà ultime in termini grandiosi e terribili, quelli che si usa chiamare apocalittici. Sono simboli, per dire che il mondo presente è destinato a finire; solo Dio rimane per sempre (“Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”.
Passeranno il cielo e la terra, quando? La fine di questo mondo resta per noi inconoscibile. Ma c’è anche la fine della nostra presenza in questo mondo, cioè il giorno in cui questo mondo passerà per ciascuno di noi. Nessuno può dire con certezza quando questo evento accadrà; ma la comune esperienza insegna che sarà entro un tempo ragionevolmente prevedibile: è questione di qualche decennio, forse qualche anno e magari solo qualche giorno. Inutile nascondercelo: tutti dobbiamo morire, e in genere prima di quando vorremmo. Inutile inquietarsi: non serve a cambiare la realtà, ma il non pensarci è proprio dello stolto.
In questo “passare” che sperimentiamo ogni giorno, in questo trascorrere della nostra vita che ha volte ci sfugge o subiamo o che viviamo come dono e con gioia, c’à qualche cosa che resta, qualche cosa che non passa?
“Le mie parole non passeranno”! Quelle parole che esprimono la Parola, quella Parola generata e generante, che dalla Creazione alla Redenzione ha posto un seme di Eternità nel cuore di ogni donna e uomo, ebbene quella Parola che ci ha generato e rigenerato non passa. Non passa quella vita che ha accolto la Parola, da Lei sanata e risorta e si fa parola evangelica.
Non passano quelle “parole” che generano vita e fraternità; quelle parole che risanano chi è ferito e rialzano chi è caduto.
Non passa una vita evangelica capace di vivere di Speranza, capace di rendere ragione della propria speranza perché già visitata e abitata dalla Parola. Seme che giungerà a maturazione nel dono accolto della Vita.