«Come può costui darci la sua carne da mangiare?» (Gv 6,52).

La questione che tormenta i Giudei potrebbe innescare una serie di spunti per la nostra meditazione. Provo a riformulare la loro domanda con una mia libera interpretazione, che centra poco o nulla con il sesto capitolo del vangelo di Giovanni, ma che genera dentro di me una serie di pensieri intriganti. In effetti è strano che un uomo ci offra la propria carne come cibo per alimentare una vita piena. Proviamo a superare qualsiasi fantasia legata a un improbabile cannibalismo dei cristiani, e usciamo categoricamente dal film horror che questi interlocutori increduli avevano già prodotto nelle loro menti distorte.

Io mi chiedo semplicemente questo: quando mai un uomo ha qualificato la propria carne al punto tale da farla diventare dono che nutre le vite degli altri? Se nell’orizzonte semantico dei testi biblici la parola ‘carne’ indica sempre fragilità, creaturalità, mortalità, ma anche quella tendenza al peccato e all’infedeltà che è presente in ciascuno di noi, allora potremmo chiederci: è pensabile che io abbia con il mio corpo un atteggiamento diverso dall’avidità di Adamo ed Eva, che successivamente degenera nella violenza fratricida di Caino? È possibile che la parola carne non sia sinonimo di egoismo? Nei confronti di questo vocabolo San Paolo usa soltanto espressioni di condanna: “Del resto sono ben note le opere della carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere” (Galati 5,19-21). Alla carne Paolo contrappone lo Spirito: “Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Galati 5,22).

Forse qui emerge uno dei tratti geniali del quarto vangelo: nella vicenda umana di Gesù accade il miracolo più grande: la rigenerazione della nostra carne. Si apre in Cristo una strada nuova: è possibile un soggetto umano non ripiegato nel proprio ventre; è possibile che io non trattenga tutto per me, allo scopo di nutrire soltanto il mio stomaco, dimenticando i bisogni altrui, facendo finta di non vedere il corpo morente di chi è stato aggredito, che soltanto il Samaritano si fermerà a soccorrere. L’unico miracolo eucaristico che davvero servirebbe a rilanciare le nostre esistenze è questa trasformazione della carne umana, che non sarà più la caccia aggressiva di cibo per sé, ma spazio di condivisione del pane spezzato e distribuito, che è messo a disposizione di tutti, specialmente di coloro che in questo momento hanno più fame degli altri.       

Don Andrea parroco