«Ti benedico, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli.» Mt 11,25

Secondo alcuni esegeti, il brano si pone in stretta connessione con il testo precedente. Gesù partecipa al gioco di Dio: il lamento e la danza. Odio del male e amore del bene, tristezza per il primo e gioia per il secondo, vanno insieme anche se ben distinti. È “in quel momento” che dal cuore del Figlio, il Signore Gesù, sgorga la preghiera di lode e un inno di benedizione al Padre, apice del Vangelo. “Quel momento” è anche sempre questo, come a dire che anche ciascuno di noi è contemporaneo all’evento.

“Ti benedico, Padre”: la parola greca ha come significato quello di conoscere pubblicamente, proclamare con una connotazione di lode e di ringraziamento. E il motivo è che il Padre ha scelto come destinatari della rivelazione, dell’annuncio del Regno, i piccoli, scartando sapienti e intelligenti.

Nella tradizione i piccoli sono una variante dei poveri ai quali è annunciata la buona notizia; ad essi si oppongono i sapienti, coloro che, con la loro intelligenza, dirigono le cose come vogliono. Nella prospettiva dell’evangelista Matteo, i piccoli sono i discepoli credenti opposti ai sapienti e intelligenti, cioè a scribi e farisei.

Questa duplice interpretazione si innesta su quella di Gesù che riconosce l’azione salvifica e gratuita del Padre nella duplice reazione difronte alla sua persona e al suo messaggio: gioiosa accoglienza da parte dei poveri, peccatori, malati, popolo ignorante e l’ostinato rifiuto dei responsabili qualificati per cultura ed esperienza religiosa. Ma il privilegio di conoscere Dio non è dato ai sapienti, bensì agli ultimi. È un dono fatto a chi lo desidera, lo desidera chi ne ha bisogno, ne ha bisogno chi non ha niente. L’essere piccoli, un “nulla”, è il luogo in cui possiamo accogliere la ricchezza di Colui che è il tutto, l’unica ricchezza che basta in tutto, il sommo bene. È una sapienza silenziosa, propria del povero, dell’umile, del “puro di cuore” a cui Dio si mostra bussando al suo cuore.

È la sapienza del Figlio, quella delle Beatitudini, in quella relazione filiale che si apre anche ai fratelli; è la sapienza di Francesco d’Assisi, povero ed umile che entra ricco nel Regno dei cieli: è all’Alto e glorioso Iddio, che il poverello innalza il canto della lode e della benedizione, è a Lui, come i piccoli del Vangelo, che riaffida la sua vita, nella consegna fiduciosa e obbediente, e nella restituzione di ciò che è.

In questa logica anche il giogo della volontà del Padre non è un giogo oppressivo, ma quel carico leggero che ne rivela il nucleo essenziale, quello dell’Amore: fare la volontà del Padre è seguire il Figlio che lo rivela e ne porta a compimento la promessa di vita in abbondanza.

La vita e il cammino di sequela di Francesco, dei discepoli, di ciascuno di noi è proprio questo: rimanere dentro la beatitudine dei figli, con quell’amore che ha come misura quella del Figlio, Lui che ci ha amato e ha dato sé stesso per noi. È la logica dell’amore che nulla trattiene, ma tutto si dona in uno spazio di libertà che si fonda sul patto di alleanza tra Padre e Figlio e, in Lui, con tutti i suoi figli.

“Ti benedico, Padre…”: possa la vita di ciascuno entrare nella danza dell’amore partecipando della stessa gioia che regna nel cuore della Trinità, accogliendo quel dono prezioso che è posto nel nostro fragile vaso di creta: essere suoi figli amati e benedetti.

le sorelle clarisse