Il Cristianesimo ha una speciale vocazione alla convivialità. Il Signore Gesù descritto polemicamente come “mangione e beone, amico dei pubblicani e peccatori” ha insegnato volentieri a tavola, e ha rappresentato spesso il regno di Dio come un convito festoso. Per questo invitare Gesù a pranzo è correre un bel rischio, come hanno imparato a loro spese i farisei. Ogni volta che l’hanno fatto, Gesù gli ha messo sottosopra la cena, mandandoli in crisi, insieme con i loro ospiti. Lo fa anche in questo Vangelo, creando un paradosso e una vertigine. Il paradosso: vai a metterti all’ultimo posto, ma non per umiltà o modestia, non per spirito di sacrificio, ma perché è il posto di Dio, che «comincia sempre dagli ultimi della fila» (don Orione), perché è il Dio “capovolto”, venuto non per essere servito, ma per servire. Il linguaggio dei gesti lo capiscono tutti, bambini e adulti, teologi e illetterati, perché parla al cuore. La pedagogia di Gesù è «opporre ai segni del potere il po­tere dei segni» (Tonino Bello). E segni così generano un capovolgimento della nostra scala di valori, del modo di abitare la terra. Creano una vertigine: Quando offri una cena invita poveri, storpi, zoppi, ciechi. Riempiti la casa di quelli che nessuno accoglie, dona generosamente a quelli che non ti possono restituire niente. La vertigine di una tavolata piena di ospiti male in arnese mi parla di un Dio che ama in perdita, ama senza condizioni, senza nulla calcolare, se non una offerta di sole in quelle vite al buio, una fessura che si apre su di un modo più umano di abitare la terra insieme.

E sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Che strano: poveri storpi ciechi zoppi sembrano quattro categorie di persone infelici, che possono solo contagiare tristezza; invece sarai beato, troverai la gioia, la trovi nel volto degli altri, la trovi ogni volta che fai le cose non per interesse, ma per generosità. Sarai beato: perché Dio regala gioia a chi dona amore.