«Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me» (Gv 15,4).
Per tre volte in questo versetto ritorna il verbo “rimanere”, che forse è il principale filo conduttore del vangelo di Giovanni. Nel testo greco troviamo il verbo “mènein”, che il quarto evangelista utilizza frequentemente, a partire dal primo capitolo; i due discepoli di Giovanni Battista vengono indirizzati dal loro maestro a guardare e a seguire Cristo. E tutto prende avvio dalla celebre domanda: “Maestro, dove dimori?”. Il verbo è sempre lo stesso, ripetuto tre volte anche qui, tradotto in due modi: ‘dimorare’ oppure ‘rimanere’. “Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbì – che, tradotto, significa Maestro -, dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio” (Gv1,38-39). Il messaggio è chiaro: nella seconda e terza domenica di Pasqua abbiamo ripetutamente ascoltato nei testi liturgici questa espressione, usata dagli evangelisti per indicare la venuta del Risorto: “Stette in mezzo”. Il Cristo vivente non appare, ma semplicemente sta, è presente, è in mezzo ai suoi, a coloro che gli appartengono, come fa il pastore che non abbandona il gregge. Quindi Lui ci sta! E noi? abbiamo voglia di starci? Siamo disposti a rimanere agganciati a lui, come il tralcio è connesso alla vite, e come le pecore radunate attorno al pastore? Alla fine del capitolo 6 del vangelo di Giovanni, Gesù pone una domanda liberante ai dodici: “Volete andarvene anche voi?” (Gv 6,67). Il Pastore buono apre al gregge la possibilità di una dispersione. Duemila anni dopo, si tratta di capire se la risposta di Pietro interpreta anche il nostro sentire: “Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna»” (Gv 6,68). Siamo convinti anche noi che Gesù sia “la vite, quella vera” e “il pastore, quello bello” (Gv 15,1; Gv 10,11)? Perdere il contatto con Lui diminuisce la qualità delle nostre esistenze e dei nostri legami? Oppure la sua figura è facilmente rimpiazzabile con il maestro di yoga, con la ricerca di un benessere psicofisico, o con qualche tecnica di meditazione? Vi propongo umilmente il mio pensiero: davanti a noi si aprono diverse strade per aver cura del nostro mondo interiore. Ma sganciati dal corpo di Cristo e dalle pagine dei vangeli corriamo il rischio di coltivare una spiritualità egocentrica. Fermo restando che molti si dichiarano cattolici, ma il loro stile di vita è in aperta contraddizione con il comandamento dell’amore. E certe persone, apparentemente lontane dal Signore e dalla Chiesa, che praticano ogni giorno la compassione e la cura del Buon Samaritano, testimoniano che si può ‘essere-in-Cristo’ anche in forma anonima. Perché duemila anni fa un seme di vita buona è stato gettato nei solchi della terra. E sono ancora molti i tralci che portano frutto.
Don Andrea