I vangeli di queste domeniche si pongono una grande domanda: Come possiamo incontrare il Risorto?” Dove e in che modo? Dal mattino di Pasqua si passa alla sera di quello stesso giorno. Solo Giovanni racconta che Gesù apparve in mezzo ai suoi entrando a porte chiuse (letteralmente sprangate con una sbarra).

I discepoli, nonostante la notizia sconvolgente dell’angelo, avevano paura perché il mandato di cattura era per tutto il gruppo. Che bello vedere che le porte chiuse non fermano il Signore, l’incredulità non arresta il desiderio di Dio di incontrarci. Le nostre chiusure non fermano il Risorto! Il Suo amore è più forte delle nostre paure. L’abbandonato ritorna da coloro che sanno solo tradire e abbandonare.

Immagino si aspettassero un rimprovero, in fondo lo avevano abbandonato e tradito ma Gesù non porta rancore: annuncia la pace e dona lo Spirito. Le prime parole del Risorto sono un dono di felicità. Il termine ebraico “Shalom”, (che noi traduciamo semplicisticamente con “Pace”), esprime tutto ciò che comporta la felicità, la pienezza di vita. Non è un invito o un augurio (non dice “La pace sia con voi”), ma è un’affermazione, un dono: la pace è qui, è in voi, è iniziata. Il Risorto dona tutto quello che concorre alla felicità dell’uomo.

“E disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo”. Nell’originale greco non c’è l’articolo determinativo, ma dice “ricevete Spirito Santo”. L’accoglienza di questo Spirito dipende dalla capacità d’amore dell’uomo. E’ come se il Risorto dicesse: “ricevete quello che voi siete capaci di accogliere”.

E’ difficile credere alla risurrezione, a una notizia così bella. Per questo abbiamo cinquanta giorni per riflettere e convertirci e in questo cammino abbiamo un compagno di viaggio: Tommaso. Strano destino il suo. Ha fatto la più bella espressione di fede nei vangeli ed è passato alla storia come l’incredulo.

Nel Vangelo di Giovanni il suo nome viene ripetuto sette volte (il numero della totalità) e per tre volte viene detto “didimo”, il gemello. Di chi è il gemello? E’ il gemello di Gesù. Al momento di andare da Lazzaro per risuscitarlo, i discepoli si erano impauriti perché stavano ritornando in Giudea dove cercavano di ammazzarlo e Tommaso sarà l’unico ad avere il coraggio di dire “andiamo anche noi a morire con lui”. Tommaso non era pauroso come gli altri discepoli (che infatti stanno chiusi). Tommaso aveva compreso, che non bisogna dare la vita per Gesù, ma con Gesù e come Gesù. Da quel momento Tommaso viene chiamato “il Dìdimo”, il gemello di Gesù, quello che gli assomiglia.

Ma Tommaso è anche nostro gemello, è “uno dei dodici” (come Giuda!) prototipo del discepolo. In fondo siamo noi Tommaso, che per credere non ci accontentiamo di ascoltare ma vogliamo toccare. Ci sentiamo vicini a lui in una fede dubbiosa dimenticando che il dubbio è il lubrificante della fede (Maria, all’angelo che annuncia la nascita di Gesù, esprime dubbi…).

Ma soprattutto Tommaso non crede ai suoi amici. Perché? Semplicemente perché non erano credibili. Come poteva credere a coloro che erano scappati sotto la croce, che avevano lasciato il maestro solo nel momento dell’angoscia. Erano stati degli ipocriti. Come poteva credere a Pietro che lo aveva rinegato per ben tre volte! E’ l’esperienza che viviamo noi quando ci capita di annunciare la bella notizia del vangelo e la gente fatica a crederci. Sapete perché? Perché siamo poco credibili. Ma Tommaso non abbandona il gruppo e dopo otto giorni è ancora la e fa bene perché il Risorto torna solo per lui!

Questo incontro, avviene dentro la comunità, non va a fargli visita a casa sua. Il luogo dell’incontro è la comunità riunita, una comunità mediocre che ha dovuto fare i conti anche con il tradimento di uno di loro. E’ confortante sapere che l’incontro con il Risorto non avviene in una comunità ideale e perfetta (che non esisterà mai!), ma in quella in cui vivi, quella con la quale il Risorto ti ha chiamato a camminare. E’ li dove viviamo che il Risorto vuole farsi incontrare.

Gesù non concede a Tommaso apparizioni particolari, ma gli si presenta “Otto giorni dopo”, cioè quando la comunità si riunisce di nuovo nella celebrazione dell’Eucaristia. E’ bello sapere che il Risorto, se tardo ad aprire la porta del mio cuore, ritorna. Ha pazienza, non si stanca. E viene in cerca proprio di me. Come sempre va in cerca della pecorella smarrita.

Gesù dice a Tommaso di mettere il suo dito nei fori delle mani e nel fianco, ma Tommaso si guarda bene dal farlo (sono i pittori che lo rappresentano con il dito infilato nelle piaghe ma Tommaso non lo fa!). Al contrario pronuncia la più alta professione di fede di tutti i Vangeli: «Mio Signore e mio Dio!». Qual è la prova della risurrezione di Gesù? Il dolore e l’amore condiviso! E’ questa la sua onnipotenza. Le ferite del Risorto diventano feritoie d’amore.

E poi ecco la nostra beatitudine: «Beati quelli che senza aver visto crederanno». Cioè felici noi che, dopo duemila anni, con fatica cerchiamo di seguire il Maestro. E’ la beatitudine per chi ricomincia, per chi fa fatica. Siamo noi quelli di cui parla Gesù, noi che ogni otto giorni, dopo duemila anni, continuiamo a riunirci nel suo nome anche se non lo abbiamo visto. Dio ci liberi da una fede talmente sicura di sé da diventare orgogliosa, disprezzante nei confronti di chi fa fatica a credere perché provato dalla vita!

Giovanni, al termine del suo Vangelo ci lascia uno stimolo: l’esperienza del Risorto è personale. Dio è un’esperienza: bisogna “toccarlo”, vederlo, incontrarlo. Aver letto tanto sull’amore è conoscenza, ma essere amati, è un’altra cosa. E’ l’esperienza che produce la vera conoscenza, perché l’esperienza è la conoscenza del cuore. Le nostre liturgie non ci devono parlare di Dio, ce lo devono far sentire, toccare, sperimentare.

Giovanni conclude: «Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro». Giovanni ci invita a scrivere il nostro libro, il nostro vangelo. Le prime comunità cristiane ci hanno trasmesso la loro esperienza, noi dobbiamo farla nostra e poi scrivere il nostro personale vangelo. Era quello che succedeva almeno fino al IV secolo nelle primitive comunità cristiane. Ogni comunità, ogni parrocchia dovrebbe scrivere il suo Vangelo.

La bella notizia di questa Domenica? Non importa quanti fallimenti, Lui c’è! Non importa quante debolezze, Lui c’è! Non importa quanti tradimenti, Lui c’è.

Paolo De Martino