“Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te” Mt 18,15
Mi fa tenerezza leggere questo brano.
Mi intenerisco pensando a Gesù che parla ai suoi discepoli, a quei discepoli, a noi discepoli, fragili, scostanti, colmi di contraddizioni, rissosi; discepoli raccogliticci, così diversi fra loro, che Gesù porta con sé per educarli, per farli diventare profezia di un mondo diverso in cui si vive senza sbranarsi vicendevolmente. Un mondo riconciliato, infine.
Mi intenerisco pensando a Matteo che quelle parole ricorda e scrive, indirizzandole ad una comunità frastornata dagli eventi storici, dalla distruzione del tempio, dal sentirsi fragile vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro.
Lo leggo e lo rileggo. Ma sul serio? Davvero Gesù crede a questa roba? Davvero è possibile realizzare quanto dice?
Mi guardo attorno. Mi guardo dentro. Luce e tenebre ci abitano, mi abitano, inestricabili, fanno parte della stessa tavolozza, necessaria alla libertà, essenziale all’amore. Vedo in me e attorno a me tanta pace, bellezza, amore e passione. Ma anche tanta rabbia e violenza, vittimismo e scoraggiamento. Luce e tenebra essenziali l’una all’altra, due facce della stessa medaglia.
Vedo gente aggressiva, scontenta, pettegola, sempre pronta ad accusare, a giudicare, a denigrare, a giustificarsi. Anche nella Chiesa. Vedo cristiani inutilmente moralisti, intransigenti con gli altri e accondiscendenti con sé stessi, arroccati, che si sentono gli avvocati di Dio, che si pensano, se non migliori, almeno non peggiori degli altri.
Ed è normale che sia così. Istintivo. Veniamo dal fango. E pensiamo che, alla fine, non ci siano altri modi di essere, di vivere, di relazionarsi. Gesù, al solito, fa nuove tutte le cose. Spariglia le carte.
Se tuo fratello commette una colpa contro di te. Quindi è previsto che un fratello possa sbagliare. Chi crede che il cristiano non commetta colpe, sbaglia. È previsto che, nonostante la fede, la conversione, la vita interiore, si possa ancora peccare.
Non è un incidente, non è uno scandalo. Restiamo peccatori. Cioè, in divenire. Cioè, in crescita.
Il discepolo sa riconoscere le proprie colpe. Le conosce, non se ne fa schiacciare ma nemmeno le ignora o le giustifica. Le affida alla tenerezza di Dio. E la Chiesa, allora, non diventa assemblea di giusti ma di peccatori riconciliati.
Ma ciò che fa la differenza è quel titolo: fratello. Uno che pecca contro di te, sì. Ma un fratello. Non un avversario, non un nemico, non uno da cancellare sulla faccia della terra. Colui che sta sbagliando ha dei legami con te. Ti è prezioso perché in Cristo siete fratelli. Ti sta a cuore perché portate in voi la stessa sete di Assoluto, la stessa nostalgia infinita di Dio.
Va’! Muoviti, spicciati, agisci. Non stare inchiodato al tuo orgoglio ferito. Non rimuginare. Non meditare (santa) vendetta. Non pensare ai tanti difetti che il tuo fratello ha e che tu, benevolmente, hai tenuto nascosto agli altri, nascondendo i suoi (evidenti) limiti.
Vai e parlagli, chiarisciti, chiedigli, trova un punto di incontro. Senza aggredirlo, senza giudicarlo, ammoniscilo. Perché lo vuoi guadagnare. Se ti ascolta, se capisce, se si ravvede, se vede nel tuo gesto non un’accusa ma un desiderio di bene, allora avrai guadagnato. Diventerai ricco, un milionario, incasserai non monete sonanti, ma cuori danzanti di tenerezza. Il tuo e il suo.
Invece, spesso, se uno pecca contro di me è una carogna. Da lui proprio non me l’aspettavo perché, si sa, il peccato originale è roba per i pagani. Poi sono deluso (bene, de-ludere viene dal latino e significa smettere di giocare) e pieno di santa rabbia. Allora non mi capacito, cerco sponda, compassione, qualcuno che la pensi come me. E agisco, magari subdolamente. Remo contro, spargo qualche diceria, vado a controllare cosa scrive sui social. Non ho interesse a guadagnarlo, ma a dimostrare che ho ragione. Santamente.
Se ascolto una predica sul perdono penso che l’altro dovrebbe ascoltare e ravvedersi. Non che io debba ascoltare e ravvedermi.
Se non ti ascolta va’. Due testimoni, poi la comunità. Si allarga il cerchio, ma non per spettegolare, bensì per coinvolgere. Per superare i personalismi, per guadagnare. Una rete di sostegno, il prendere a cuore, il voler guadagnare a tutti i costi. Senza gettare la spugna. Senza ipocrisia.
Esiste il peccato e fa male al mondo, alla comunità, all’umanità. E voler guadagnare, voler trovare, voler sostenere non è l’azione saccente e arrogante di chi si sente migliore. Ma l’agire del fratello che dice anche cose scomode, se necessario. Che corre il rischio di apparire maldestro e inopportuno per richiamarti alla verità del Vangelo.
Equilibrio difficile da ottenere eppure, sembra dire Gesù, possibile. Nella logica del legare a Lui. Nella logica dello sciogliere ogni schiavitù, ogni ostacolo che ci impedisce di essere felice.
E se non ascolta nessuno, sia per te come il pagano, cioè qualcuno a cui annunciare il Vangelo. Nuovamente. Qualcuno a cui raccontare ancora e ancora che è amato da Dio, a prescindere. Gesù insegna a farlo, Matteo lo raccomanda alla sua comunità.
È possibile riconciliarsi perché siamo chiamati a custodire Dio, a contenere l’infinito amore, l’infinita compassione che converte noi e il mondo. Eccola la logica del Vangelo.
Fratelli che si fanno carico (non che si fanno gli affari degli altri) gli uni degli altri.
Senza correre dietro ai precetti e alle regole come ammonisce Paolo, ma amando intensamente.
Fratelli che ammettono che ci siano ombre nella propria vita e in quella altrui, ma che non lasciano che le ombre oscurino la luce del sole.
Fratelli che non giudicano da fuori ma si mettono in gioco, vanno, osano, cercano di guadagnare una vita alla pienezza. Quella di chi ha sbagliato e la propria.
Ma è davvero possibile quanto dice oggi questa Parola tagliente?
Sì, forse, a prenderla sul serio. Ed è l’unico modo in cui torneremo ad essere credenti credibili. Quando nelle comunità sarà nuovamente evidente che siamo amati e che vogliamo amare, osando il perdono.
Paolo Curtaz