“Allora Gesù disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio»”. Mt 22,21

Abbiamo sempre bisogno di appartenere a qualcuno. Siamo tutti come la moneta romana che mostrano a Gesù: «Divo Tiberio», «sono del divino Tiberio, figlio di Augusto». E io a chi appartengo? Forse alle cose, ai poteri forti, al pensiero dominante, oppure ai miei sogni, ai legami vitali, all’amore che provo e che, mi assicura la Bibbia (cf 1Gv 4,16), è «Dio che ama in me»? I filoimperiali di Erode e gli indipendentisti del sinedrio pongono a Gesù una di quelle domande taglienti che fanno impennare l’audience e dividono gli spettatori: maestro, tu che sei libero e dici le cose come stanno, che relazione hai con Cesare, con il potere? La risposta di Gesù è acuta: come al suo solito, davanti a domande maliziose o capziose, porta gli uditori su di un altro piano, spiazzandoli con un doppio cambio di prospettiva. Primo cambio: sostituisce il verbo «pagare» con «restituire»: rendete, restituite a Cesare ciò che è di Cesare. Un imperativo forte, che coinvolge ben più di qualche moneta, che dà un’anima nuova alle relazioni: restituite il molto ricevuto, date indietro, guardate alla sorgente. Vivere è restituire vita, che viene da prima di noi e va oltre noi. Viviamo per restituire amore a chi con l’amore ci ha fatto e ci fa vivere. Come il respiro: accogli e restituisci, non lo puoi trattenere, è puro dono. «Ricevimi, donami, donandomi mi otterrai di nuovo», scrive l’antico libro dei Rig Veda. Secondo cambio di prospettiva: Gesù fa entrare in gioco la sua visione e la sua forza profetica recidendo di netto il legame tra le due parole incise sul denaro: divino Tiberio. Cesare non è Dio, Tiberio non è divino. Rendete a Cesare ciò che è di Cesare, e a Dio ciò che è di Dio. A questo punto Gesù si ferma, non si sostituisce a noi, non ci esenta dalla responsabilità di usare la nostra intelligenza per valutare, scegliere, decidere cosa sia di Cesare, cosa di Dio.
Restituite a Dio quello che è di Dio: di Dio è la terra e quanto essa contiene (Dt 10,14). Anche Cesare appartiene a Dio. Ogni persona porta incisa l’iscrizione profetica: «io appartengo al mio Signore», «ha scritto sulla mano: del Signore!» (Isaia 44,5). Ognuno una piccola moneta d’oro con, in altorilievo, l’immagine e la somiglianza con Dio, sormontata da una dedica sacra: «sono di Dio». Ognuno un talento inviato al mondo, da far fruttare e poi restituire al bene comune. Ma non in perdita: «donandomi, mi otterrai di nuovo». Entrando così nel circuito del dono che Gesù instaura invece del possesso. Non l’accumulo, ma la restituzione; non le porte blindate sui miei averi, ma la loro circolazione nelle vene del mondo. L’uomo vive di vita donata. Prima ricevuta e poi restituita. (Letture: Isaia 45,1.4-6; Salmo 95; 1 Tessalonicesi 1,1-5; Matteo 22,15-21) 

Ermes Ronchi

 
“Rendete a Dio quello che è di Dio”. La domanda nasce spontanea: che cosa appartiene a Dio? Cosa gli dobbiamo rendere? Che cosa è suo? Il grave errore sarebbe attribuire a Dio i miei pensieri, i miei orientamenti, le mie appartenenze politiche o culturali. È semplicemente ridicolo immaginare che Dio sia tradizionalista o progressista, di destra o di sinistra, o peggio ancora sovranista, populista, negazionista… Qualcuno è arrivato a pensare che anche l’Altissimo appartenga ai movimenti “no-vax”. I detrattori di papa Francesco sono convinti che il Signore non sopporti l’attuale pontefice. Da alcuni millenni, nel nome di Dio vengono commesse le peggiori atrocità. Dio è Altro da me e da noi; è altro da te e da loro. La sua alterità è esattamente ciò che gli dobbiamo riconoscere e restituire. Per esprimere la distanza che separa il Creatore dalle creature la Bibbia utilizza il termine santità: è questa la differenza tra noi e Dio; Lui è il Santo! Che tradotto significa un misto di fedeltà e tenerezza; il Signore non tradisce mai e non smette mai di capire, di comprendere, di perdonare, di rigenerare e di rieducare (con la giusta severità, che nasce sempre dall’amore). Dio è sempre sorgente e custode della vita; noi invece continuiamo a dimostrare la nostra attitudine umana ad essere promotori di morte. Ciò che è proprio di Dio, cioè il suo stile, ci viene raccontato con una sintesi perfetta alla fine del secondo capitolo dell’Esodo, cioè i versetti che precedono l’incontro di Mosè con JHWH sul monte Oreb: “Gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio. Dio ascoltò il loro lamento, Dio si ricordò della sua alleanza con Abramo, Isacco e Giacobbe. Dio guardò la condizione degli Israeliti, Dio se ne diede pensiero” (Es 2,23-25). Ascoltò, si ricordò, guardò, se ne diede pensiero: quattro verbi che rivelano il dinamismo dell’amore. La santità di Dio è la sua presenza misericordiosa, le sue viscere materne che si accendono laddove una creatura qualsiasi geme, grida, si lamenta, perché si ritrova in condizioni di povertà, debolezza, paura, dolore. “Rendete a Dio quello che è di Dio”: ha risposto così Gesù a erodiani e farisei. Questa frase va tradotta nella storia contemporanea e ha un significato preciso: i palestinesi, gli israeliani, gli ucraini, gli africani arrivati dal Mediterraneo, i nostri connazionali che hanno perso il lavoro, la persona gravemente depressa, il ragazzo completamente in crisi, il malato e l’anziano bisognosi di cure… tutti costoro sono semplicemente fratelli e meritano esclusivamente amore. Qualsiasi gesto o parola che vada contro la fraternità, o che blocchi la ricerca della giustizia e della pace non potrà mai appartenere a Dio; è il tradimento della sua Paternità.     
Don Andrea Guglielmi Parroco