“Chi accoglie voi accoglie me” Mt 10,40.
La pagina evangelica di questa domenica ci presenta la conclusione del cosiddetto discorso della missione del vangelo di Matteo (10,5-42). In questi emerge la centralità della relazione personale del discepolo con Gesù: la missione è dedizione assoluta a lui, e di conseguenza condivisione della sua sorte.
La struttura del brano è singolare. Si tratta di dieci frasi, introdotte efficacemente nella versione italiana da dieci “chi”: dieci soggetti proposti come modelli negativi o positivi, divisi in due categorie.
I primi tre detti riguardano tre soggetti che non sono da imitare e fanno eco a un passo del profeta Michea dal sapore apocalittico. Matteo vuole sottolineare che la presa di posizione nei confronti di Gesù e del suo messaggio non può essere in alcun modo rimandata: è questione decisiva e irrevocabile. L’urgenza della decisione risiede nell’incalzante avvicinarsi del regno di Dio, reso presente da Gesù. Non si deve perdere tempo, né ripensare ai propri passi o tornare a fare dei legami umani il criterio e la ragione del proprio vivere (cfr. Mt 8,21-22). Gesù domanda un’adesione radicale, totale e preferenziale alla sua persona, un’adesione che coinvolga la radice degli affetti, abbracci tutta la vita e sappia subordinare a lui persino i legami più cari. Scriveva Dietrich Bonhoeffer commentando questi versetti: «Con l’incarnazione Gesù si è posto tra me e la realtà di questo mondo. Non posso tornare indietro. Egli sta in mezzo. Egli è il mediatore: non sta solo tra me e Dio, ma anche tra me e il mondo, tra me e gli altri uomini. Tra padre e figlio, tra marito e moglie sta Cristo, il mediatore […] Il rapporto immediato è un’illusione» (D. Bonhoeffer, Sequela).
Il v. 38 contiene parole molto forti: «chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me». L’espressione “prendere la croce”, in un tempo in cui i portatori di croce costituivano uno spettacolo abituale, era una metafora indicante il sopportare dolori e fatiche. Senza dubbio però questo detto viene considerato da Matteo alla luce della Pasqua di Gesù. E allora la croce non è più semplicemente la fatica del vivere o la durezza del destino: è quel marcire del seme, caduto per portare frutto, che si comprende soltanto in rapporto al morire di Gesù; è la scelta di una dedizione senza confini, che rimane fedele all’annuncio del regno, all’annuncio del vero volto di Dio anche a costo del proprio venire meno. La necessità della croce, per Gesù e per il discepolo, è dentro la libertà di una scelta di vita che porta con sé il rischio della condanna.
La contrapposizione paradossale del quarto e del quinto “chi” (v. 39) appare molto efficace: chi non gioca la sua vita per Gesù, la perde per sempre; chi non ha paura di esporla per lui, la guadagna. È un’affermazione assurda per il non credente, ma per chi crede rivela la sorprendente risposta di Dio, in Gesù, all’assurdità delle croci innalzate dall’uomo. Per Dio il male è l’assurdo, non l’amore che lo attraversa e lo vince. Chi perde la sua vita amando come Gesù, trova in realtà la salvezza, la pienezza della vita, portando a compimento la propria maturità umana e spirituale.
La seconda parte del brano è scandita dal verbo “accogliere” e i soggetti presentati sono tutti da imitare. L’attenzione, però, prima di spostarsi su coloro che praticano l’accoglienza, è posta sull’identità di chi viene accolto. Chi accoglie voi – dice Gesù – accoglie me e colui che mi ha mandato. C’è una stretta correlazione tra il discepolo, Gesù e il Padre. Il discepolo non porta mai sé stesso, le sue idee, le sue convinzioni. Egli porta la persona stessa del Signore, perché vive della relazione personale con lui. Il discepolo non trasmette una dottrina, ma vive e manifesta una relazione. E chiunque può essere suo discepolo: anche il più piccolo è chiamato e inviato da Dio, perché il rapporto con il Signore è per tutti, è di tutti, ed è ciò che genera la comunità (non viceversa!). Scriveva il card. Martini nella Lettera pastorale “Ripartiamo da Dio”: «Non è anzitutto importante costruire la Chiesa, ma seguire Gesù Cristo. È il seguirlo, l’entrare in lui, il partecipare alla sua vita di Figlio che ci fa Chiesa». E chi riconosce nella persona del discepolo la presenza stessa del Dio vivente, e apre a lui il cuore e la casa, ha già ottenuto la sua ricompensa, che non perderà più: il dono dell’ingresso nella relazione con lui, che illumina di senso il vivere e il morire.
Sorelle Clarisse