«In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei». Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro.
Mi stupisce, ma non troppo, che i discepoli è detto senza giri di parole, non capirono che cosa intendesse Gesù con questo discorso del pastore e delle pecore. Anzi, ho il sospetto di essere anche io tra costoro.
Mi accorgo di essermi un po’ troppo accontentato di comprendere quelle parole del vangelo con la placida tranquillità delle pecore che si beano ascoltando la voce famigliare e sicura dei loro pastori senza andare troppo oltre. Ho sempre sentito infatti commenti al capitolo decimo di Giovanni che mi hanno istruito e trasmesso l’eccellenza e l’affidabilità di Gesù come pastore autentico, unico e misericordioso. Ben inteso: nulla di più sapiente e spiritualmente edificante. Ma dopo decenni di ascolto della stessa musica dolce e suadente, mi sono chiesto se non fosse ora di provare ad ascoltare meglio. Non nascondo che sentir parlare di pecore e di gregge al tempo del coronavirus mi ha evocato anche un certo formicolio da orticaria. Tutta colpa di quella raccapricciante teoria nota come “immunità di gregge” che ha fatto rabbrividire quasi tutti e soprattutto le pecore dalla lana più stagionata. Credo comunque che tra i molti effetti ti nocivi della pandemia ce ne sia almeno uno paradossalmente utile: riflettere in modo nuovo sulle cose di sempre.
fr Pietro M.Tassi