“voi, chi dite che io sia?” Mt, 16,15
Dopo una domanda, quasi da sondaggio elettorale: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?» e risposte che rimandano al passato – Giovanni Battista, il giustiziere, o Elia, l’uomo che vuole portare gli uomini a Dio con la violenza – Gesù pone la domanda essenziale per i suoi discepoli e di conseguenza anche per noi: «Ma voi, chi dite che io sia?». La risposta di Pietro “Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente” suscita l’approvazione di Gesù, perché nella sua risposta Pietro vuol sottolineare che Gesù non è uno dei profeti del passato, ma è il presente di Dio (di un Dio vivente!), la rivelazione del suo progetto per la nostra storia di oggi.
Ed è proprio in quel “vivente” che c’è la bellezza della risposta di Pietro: egli proclama che Gesù non è un Messia venuto per riproporre vecchi schemi, ma è un Messia dinamico, aperto, pieno di novità: l’unico che possa veramente fare nuove tutte le cose.
Alla domanda “Chi è Gesù?” nemmeno a noi forse mancano risposte: Gesù è la sapienza di Dio, la salvezza del mondo, è il profeta di un mondo nuovo, è l’uomo solidale, la condanna dell’egoismo che genera ingiustizia e fa soffrire l’uomo.
Eppure queste risposte non bastano. Non bastano le formule di fede, ci vuole la professione dell’amore. Gesù ha lodato Pietro non perché aveva trovato le parole giuste per definire la sua identità, ma perché, nelle parole dell’apostolo, ha sentito vibrare l’amore, la fiducia totale, l’emozione di una persona che si affidava totalmente a lui, riconoscendo in lui l’ispirazione profonda della propria vita.
Non è dunque la pura ortodossia (cioè la correttezza teologica) a meritare la lode del Signore, ma l’amore che è l’aspetto fondamentale della fede e si esprime nel rapporto personale che noi realizziamo con Dio. Possiamo vivere tutta la vita frequentando messe e sgranando rosari, senza mai lasciarci scuotere, smuovere, interrogare, perché altro è dire di essere credenti, altro è credere, “innamorarsi” di Lui e del Suo messaggio. Pietro ci insegna che essere in relazione con il Signore trasforma la nostra vita, perché il Dio di Gesù Cristo è vita e ci apre a nuove prospettive. Possiamo dire di credere quando ci lasciamo trasformare dal nostro incontro con lui, quando l’esempio dei suoi gesti, la forza delle sue parole ci rendono capace di andare oltre le nostre comodità, i nostri progetti egoistici.
La fede è una realtà gratificante perché è l’incontro con una persona (la persona di Gesù), il cui mistero sarà sempre più grande delle nostre speranze umane. La fede non è mai una conquista definitiva, rassicurante, ma una ricerca continua e impegnativa, ma allo stesso tempo gioiosa perché da senso alle nostre speranze per un mondo più solidale
La risposta di Pietro ha anche come conseguenza la consegna delle chiavi del regno dei cieli a Pietro. Le chiavi del Regno sono già evocate nella prima lettura tratta dal profeta Isaia, brano incentrato sulla tenerezza di Dio (“lo rivestirò con la tua tunica, lo cingerò della tua cintura”) e sulla sua bontà e misericordia, che ci fanno intravedere il futuro Re Messia attraverso le insegne della vera regalità divina: “la chiave della casa di Davide, il trono di gloria per la casa di suo padre. Sarà un padre per gli abitanti di Gerusalemme e per il casato di Giuda”. In fondo, è quello che è stata e continua ad essere la missione di Cristo nel mondo.
Gesù affida a Pietro e ai suoi compagni l’enorme responsabilità di rendere accessibile il Regno dei cieli sulla terra. Pietro e gli altri, e di seguito tutti coloro che seguiranno la testimonianza degli Apostoli (quindi anche noi oggi) hanno il compito di custodire e aprire le porte di Dio sulla terra facendo in modo che nessuno rimanga fuori e nessuna porta rimanga sbarrata.
Dio è accessibile proprio attraverso l’umanità di coloro ai quali Gesù ha affidato il suo messaggio. Le chiavi non sono un potere, ma sono una responsabilità, un compito preciso che non va preso alla leggera!
Nel corso dei secoli tante volte molti uomini e donne sono rimasti chiusi fuori dalla comunità perché chi stava dentro non apriva le porte ed era più preoccupato di chiudere: giudizi, pregiudizi, condanne, anatemi, invidie… hanno spesso reso il regno dei cieli come un qualcosa per pochi eletti.
Avere le chiavi quindi significa far in modo che le porte non siano mai sbarrate, siano custodite, ma non inaccessibili.
Ascolto, amore e perdono sono il modo in cui le porte della comunità cristiana non rimangano mai chiuse, sia per chi sta dentro che per quelli che sono fuori.
Anna e Carlo – CPM Torino