«Gesù, vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore» (Mt 9,36). I vangeli raccontano a più riprese questo sentimento di Gesù: la compassione. Analizzando con una certa precisione il verbo nel testo più antico in lingua greca, possiamo contemplare la dinamica interiore del Maestro, che mette in movimento le sue “splanknà”, cioè le viscere materne. È la forma più intensa e sconvolgente di empatia. Il Figlio di Dio prova per una folla anonima la stessa tenerezza che si accende nel grembo di una madre quando vede il disorientamento o la sofferenza dei figli. La chiamata dei dodici apostoli è la conseguenza di questa compassione profonda, che scatta nel cuore di Gesù quando intuisce la stanchezza e il disagio della gente. Le chiese, le parrocchie, gli oratori, le vocazioni, la pastorale… tutto questo ha cominciato a svilupparsi nella storia del mondo per colpa dell’irresistibile sensibilità di Cristo. La difesa dell’identità cattolica e l’affermazione dei cosiddetti valori cristiani devono coincidere con questo collocamento: ci si deve posizionare lì, nel punto in cui Gesù osserva le vite degli altri e coltiva nel suo intimo questo senso di ospitalità. C’è qualcosa che come cristiani non ci possiamo permettere: l’indifferenza nei confronti di ogni ferita. Qualsiasi esperienza di dolore presente sul pianeta diventa un appello, che deve provocare la coscienza e attivare i meccanismi della responsabilità. La chiesa esiste per ricordare al mondo che nessuna creatura merita di essere ignorata, abbandonata o violentata. Quando Paolo VI pronunciò, il 4 ottobre 1965, il suo discorso alle Nazioni Unite, portando ai popoli della terra il saluto del Concilio Ecumenico Vaticano II, presentò i cristiani e la Chiesa universale quali “esperti in umanità”. È la conseguenza di una frequentazione, di una intimità: siamo connessi all’umanità di Gesù. La fede, la preghiera, l’ascolto della parola, il silenzio, l’eucaristia, la vicinanza concreta ai fratelli più poveri… tutto questo non è senza ricadute; la mia umanità viene continuamente plasmata dai sentimenti e dallo Spirito del Signore. E se in questo preciso istante mi presento alla comunità come soggetto ancora incapace di costruire con gli altri legami buoni di fraternità e di pace, se dentro di me prevalgono atteggiamenti che ostacolano il dialogo e la comunione, il segnale è chiaro: devo ricominciare a camminare dietro di Lui. Devo tornare al punto di partenza, alla sua compassione per le folle, e a quella voce che chiama uomini e donne a diventare discepoli, per formare un popolo nuovo di fratelli e sorelle… “esperti in umanità”.              

Don Andrea parroco